IL PRODOTTO FALLATO

 

 Ogni esperienza che facciamo nella vita ci parla della vita stessa, ci disvela sfumature di verità. La cosa più difficile oggi penso sia allenarsi a leggere la realtà e lasciarsi interpellare da essa. Nella mia esperienza di ascolto e incontro delle persone disabili mi sono lasciato toccare da queste emozioni, da questi pensieri che oggi desidero condividere con voi.

La società in cui viviamo è stata definita la società dell’effimero, del superfluo. Più comunemente, però, la sentiamo chiamare società dell’usa e getta. Questi termini, che ben si addicono a logiche economico commerciali, hanno ormai contaminato la vita di tutti i giorni. Sono divenuti una sorta di lenti deformanti attraverso le quali osserviamo e valutiamo la realtà che ci circonda. Infatti, nella società del consumo, tutto è ridotto a prodotto, anche l’individuo, ma un buon prodotto per essere tale deve rispondere ad alcune caratteristiche:
  1. Deve essere diffuso, perché la quantità definisce la normalità. Se tutti ce l’hanno vuol dire che è una cosa buona. Questo, di riflesso, produce una tendenza all’omologazione.
  2. La sua diffusione necessita, a monte, di campagna promozionale che susciti nell’acquirente il bisogno di avere quella data cosa. L’oggetto in questione andrà perciò a soddisfare una spinta pulsionale indotta. D’altra parte il soddisfacimento immediato del bisogno di possesso sembra essere l’urgenza dell’uomo occidentale.
  3. Il prodotto non deve necessariamente essere utile, avere un senso, ma è invece fondamentale il suo aspetto. Deve essere bello, accattivante ma, soprattutto, perfetto.
  4. Deve, inoltre, essere facilmente raggiungibile: nella società del consumo la fatica non suscita interesse.
  5. Infine, l’oggetto in questione deve avere vita breve, deve durare perciò il tempo di una passione, non bisogna affezionarsi troppo alle cose, si rischia di non essere più disposti a cambiare il vecchio prodotto con il nuovo.
Ogni prodotto che esce da queste logiche di marketing raramente risulta vincente sul mercato.

IL PRODOTTO FALLATO

In questo universo di “prodotti” perfetti il disabile è considerato il “prodotto” rotto, fallato. Questo suo esistere ed essere “imperfetto” mette però in crisi il sistema. È interessante notare che il termine crisi, in cinese, viene rappresentato con due differenti ideogrammi: quello del pericolo e quello dell’opportunità. Il disabile suscita, pertanto, senso di pericolo in una società che sempre più cerca l’omologazione, l’appiattimento delle differenze. Ma è anche opportunità perché offre ad ogni persona la possibilità di interpretare la realtà osservandola da un’altra prospettiva. È possibilità perché “l’evoluzione umana e quella della società, si costruiscono nella scoperta delle somiglianze e delle differenze”.

LE CRISI

Possiamo pertanto immaginare alcune di queste crisi che la presenza del disabile suscita nella società del consumo.

  • La prima crisi è quella generata dal binomio bello-degno di interesse, o meglio ancora degno di vita. Purtroppo nella società dell’usa e getta non è accettato il prodotto non accattivante sul piano estetico. Se poi è anche malfunzionante se ne incentiva l’eliminazione o la sostituzione. Il disabile pertanto dalla sua nascita è visto come un pericolo, come un problema che può essere eliminato attraverso l’aborto, ad esempio. Inoltre, se sopravvive alla logica dell’eliminazione del prodotto di seconda scelta, è comunque vissuto come un problema, in quanto se ne valuta prevalentemente il costo sociale. Questa allucinante logica non agevola sicuramente il compito di quelle famiglie che si trovano a dover fare i conti con la nascita di un bambino “rotto” e la conseguente rielaborazione del lutto del bambino perfetto immaginato fino a quel momento. Invece, una società civile che sa essere società non solo si predispone all’accoglienza della vita, sia essa di un “normodotato” che di un disabile, ma si attiva affinché la famiglia, micro-società nella società, sia in grado di sostenere questa vita.
  • La seconda crisi è quella del senso del limite. Nella società del consumo il limite è visto come qualcosa che penalizza, qualcosa di cui è meglio ignorare l’esistenza. L’uomo moderno, d’altra parte, vive nell’illusione del non limite e per questo si percepisce invulnerabile. Purtroppo però come ci insegna Mary Craig, è solo quando si è vulnerabili che si ha l’umiltà di imparare. L’uomo moderno rischia, pertanto, di non darsi l’opportunità di crescere, perché ha dimenticato che la vita stessa ha a che fare con la fragilità e il limite. Anche il dolore, del quale la società del consumo non può permettersi l’esistenza, ci parla del limite. È curioso notare come facciamo tutti sempre prima a prendere analgesici per paura del dolore che a prendere consapevolezza di che cosa il nostro corpo vuole dirci attraverso quel male. Sostanzialmente di fronte alla fatica del limite non sappiamo più cogliere la sfida e ci difendiamo razionalizzando, e la razionalizzazione è divenuta il più grande analgesico dell’ultimo secolo. Il disabile, invece, si pone per tutti noi come il manifesto pubblicitario del limite. Egli lo vive quotidianamente sulla sua pelle e attraverso di esso parla della vulnerabilità e della sofferenza. In questo ci apre all’opportunità di fare i conti con i nostri personali limiti e ad ammettere che non siamo onnipotenti, che siamo fragili in quanto umani. Il disabile ci insegna a prendere consapevolezza del limite. Ci insegna, inoltre, che il nostro limite più grande è l’individualismo e questo apre alla terza crisi.
  • La terza crisi è quella della relazione. In una società dove i rapporti sono sempre più telegrafici, a distanza e basati più sullo scambio di informazioni che sui vissuti emotivi il disabile si pone in controtendenza con il suo modo di porsi, di chiedere attenzione, e rapporti veri. Il disabile, prima di tutte le valutazioni, di tutti gli interventi educativi, ci chiede relazione. La relazione d’altra parte non si dà a, ma si fa con: non si fonda sull’io ma si basa sul noi. Essere in relazione, sia essa educativa, d’aiuto o anche semplicemente amicale, ci impone di conoscere noi stessi, e questo ci porta inevitabilmente alla nostra autoconsapevolezza. Se la relazione poi ha un carattere educativo ciò che dobbiamo fare è dare dignità, non tanto all’utente o al paziente, quanto alla persona.
  • La quarta crisi è quella del possesso. Il disabile in questo è vittima di una società che pensando solo al singolare, non sa assaporare e gustare l’altro. Proprio a causa della perduta capacità di creare relazioni esse vengono usate e consumate più che costruite e godute. C’è il bisogno di possedere l’altro al fine dell’immediato soddisfacimento personale. Questo possesso però dura il tempo di una passione, della soddisfazione di una pulsione. Vi è una cieca sovrapposizione tra la ricerca di soddisfazione sessuale e il bisogno di affetto, di tenerezza. Ci fa scandalo che questo bisogno possa emergere anche nel disabile, ma anzichè attivarsi per aiutarlo nel recuperare il senso dei sentimenti, degli stati d’animo e dei valori, gli neghiamo il diritto alla relazione affettiva. Questo perché abbiamo perso l’idea della sessualità intesa come la modalità globale di essere persona e di mettersi in relazione con gli altri. Visto così questo tema non sembra essere un problema esclusivo del disabile, ma di tutti.
  • La quinta è la crisi del tempo dell’attesa. La società consumistica, come ho detto prima, ha creato un circolo vizioso nel quale si elicitano dei bisogni ad hoc per attivare l’interesse verso un dato prodotto. Si crea perciò un prodotto e poi si trovano delle strategie per indurne il bisogno nei soggetti. Questo processo produce un’omologazione dei bisogni e castra la spinta creativa del sogno, della proiezione nel futuro. Il bisogno indotto della società dell’usa e getta non ha futuro perché è soddisfatto nel momento in cui nasce. Questo genera a sua volta la perdita del tempo dell’attesa. L’attesa è fatta di emozioni, sogni, progetti, l’attesa è il viaggio che ci porta verso una destinazione. In questo possiamo considerarci tutti vittime di un sistema che, non solo ci disabitua ad ascoltare i nostri bisogni e ad orientarli verso la costruzione di una piena realizzazione personale, ma ha creato l’illusione che non c’è gusto nel viaggio, il bello è la meta e quindi propone solo gite fuori porta. Rimaniamo così ancorati al presente, immobili, senza progetti, senza sogni. Ma se l’uomo moderno non sa accorgersi di questo imbroglio su di sé quando si scontra con la difficoltà di sognare il futuro con e per il disabile, deve inevitabilmente prende consapevolezza del suo essere disarmato.
LO SCANDALO

Il disabile, per tutte queste sfide che lancia alla società è fonte di scandalo. Ma la parola scandalo, deriva dal greco “skandalon” che significa inciampo. Ciò che scandalizza perciò è ciò che ferma il nostro sicuro progredire, ci fa cadere e da terra ci costringe a guardare il mondo da un’altra prospettiva. Il disabile, nella nostra società, è questo inciampo, che può infastidire, irritare perché apparentemente frena e rallenta il cammino, ma inevitabilmente ci impone quotidianamente la sfida di essere società.
La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo”, recita un salmo. Parole che evocano immagini simboliche che, forse, ci vogliono ricordare che ciò che è considerato inadatto a costruire un muro perimetrale diviene fondamentale per la costruzione di una casa, di un tempio. Questo perché le testate d’angolo sanno mettere in relazione, in contatto, le singole pareti, che altrimenti resterebbero solo muri. Il disabile, pietra scartata dalla società del consumo ci sprona, ci costringe a giocarci una grande opportunità, quella di imparare ad essere una società cioè un’insieme di pareti che stanno insieme perché condividono un fine, più che agglomerato di individui che come singoli muri non hanno altra utilità che dividere e separare.

Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Latest videos